Cosa c’è di peggio del documento finale della COP27, ovvero della più importante conferenza globale delle nazioni mondiali per affrontare il tema del cambiamento climatica che si è chiusa nella notte?
La totale indifferenza con cui è stata vissuta un po’ da tutti. Dalle persone ai mezzi di informazione alla stessa politica visto che il nostro Ministro dell’Ambiente ha ritenuto ragionevole abbandonare la Conferenza nel bel mezzo dei lavori un paio di giorni prima della chiusura.
Come, cioè, se l’esito della conferenza fosse indifferente alle nostre vite.
Ed è un errore clamoroso.
Perché gli accordi sottoscritti in questa sede determinano le scelte e le impostazioni tecnologiche dei vari Paesi, creano o meno lavoro e ricchezza, indirizzano verso un’economia in cui si preferiscono competenze ad altre. Insomma, non sono solo “chiacchiere” che riguarderanno le generazioni future – sebbene l’obiettivo sia proprio quello di conservare questo pianeta in condizioni dignitose almeno fino a fine secolo – ma incidono pesantemente sull’oggi.
Arrivando a quello che si è deciso c’è solo un aspetto che mi impedisce di parlare di fallimento. Ovvero il sacrosanto riconoscimento, anche economico, da parte dei Paesi sviluppati del danno che hanno fatto per raggiungere il loro livello di industrializzazione e il conseguente risarcimento ai Paesi in via di sviluppo che possano così utilizzare questi denari per sviluppare una tecnologia meno impattante dal punto di vista ambientale.
Principio giustissimo, dicevamo. Sebbene restino degli equivoci. A cominciare dal fatto che la Cina, responsabile da sola della maggiore incidenza in termini di emissioni di anidride carbonica, venga considerata un Paese in via di sviluppo. E dunque, nonostante il PIL cinese nel 2021 sia cresciuto dell’8.1% e sia il Paese più inquinante al mondo, avrebbe diritto a un ristoro economico da parte dei Paesi occidentali. Peraltro, accedendo ad un fondo di salvaguardia che non si capisce bene come si dovrebbe costituire.
Ma poi c’è la fortissima incongruenza tra il voler ribadire, anche qui giustamente, fermamente il target massimo del 1.5°C di aumento di temperatura a fine secolo senza poi mettere a disposizione soldi e strumenti per conseguirlo. Addirittura, dopo trenta anni di COP, senza avere il coraggio di nominare tutte le fonti fossili responsabili dell’aumento della temperatura globale del pianeta. Viene citato, infatti, solo il carbone ignorando petrolio e gas naturale. Evidentemente in una logica di prona sottomissione ai Paesi produttori. Per di più, relativamente ai sussidi per la produzione di energia da carbone, il termine “eliminazione” previsto dalla COP26 è stato sostituito da un drammatico “razionalizzazione”.
In buona sostanza l’esito è stato: Non c’è più tempo da attendere e noi che facciamo? Aspettiamo, aspettiamo e ancora aspettiamo.